Tra conferenze internazionali, campagne social e interventi legislativi il mondo imprenditoriale è attraversato continuamente dalle tematiche ESG. Paradossalmente, le aziende che si sentono meno coinvolte sono quelle che dovranno investire di più.
A cadenza quasi quotidiana l’ambito di lavoro che ruota attorno alla sostenibilità si amplia e si modifica, soprattutto grazie agli avanzamenti europei nell’ambito del Green Deal, cioè quell’accordo sulla decarbonizzazione e sugli obiettivi di sviluppo sostenibile che l’Unione sta portando avanti dal 2015 e che sta raggiungendo il suo compimento, per lo meno nella pianificazione normativa.
Nel lato pratico, queste decisioni si traducono in obblighi di rendicontazione, raccolta e analisi dati e, infine, un cambio del lato culturale del business. A questo punto, quando si parla di cultura aziendale, il pensiero va in automatico ai grandi gruppi, nei quali si organizzano attività di tema building, ci sono tanti televisori in giro che diffondono la cultura e il brand aziendale ecc.
La questione culturale, invece, riguarda innanzitutto le PMI! Riuscire a prepararsi ad affrontare il cambiamento è soprattutto una questione di comprensione del contesto: risulterà fondamentale che l’imprenditore sollevi gli occhi dalla catena di montaggio, si guardi attorno e verifichi se i suoi clienti stanno per chiedergli le emissioni di gas effetto serra, le politiche sociali d’impresa o di inviargli i certificati di catena di custodia.
Ovviamente, nessun cliente darà ultimatum al momento; loro stessi sono consapevoli delle difficoltà nel cominciare ad approcciarsi con i temi ESG, e di come questa difficoltà sia maggiore nelle PMI loro fornitrici, che non sono neppure, al momento, sottoposte ad obblighi diretti.
Fra un anno o poco più, però, non solo gli obblighi saranno molto vicini anche per le PMI, ma i clienti che già hanno approntato modelli e mandato gli avvisi con anticipo inizieranno a pretendere di vedere dati corretti e rigorosi, visto che è loro la responsabilità della rendicontazione finale.
Non che l’imprenditore della piccola impresa italiana non sia interessato al benessere dei dipendenti, anche se si nota un generale disinteresse verso l’ambiente, ma spesso la sua ossessione è nel numero dei pezzi e nella loro qualità, inoltre viene sommerso di burocrazia e leggi da soddisfare.
Sulla necessità di superare il modello verticale e sull’importanza delle deleghe (meglio se non a famigliari), già si parla da anni, ma quello della misurazione e miglioramento delle performance ESG è un tema diretto di business continuity.
In realtà, già da un paio d’anni molte aziende di medie e piccole dimensioni hanno fiutato il cambio d’aria e si sono messe all’opera per anticipare i tempi, ma spesso riguarda organizzazioni che operano con clienti molto esposti nel BtoC, o appartengono al terzo settore, in cui l’immagine conta molto. Il grosso del tessuto manifatturiero Italiano vede queste tematiche (come il cambiamento in generale), ancora con diffidenza e ostilità.
Non tutto il male vien per nuocere
Come detto, lavorando come consulente nell’ambito ESG e della Sostenibilità ci si imbatte anche in clienti che si trovano ad iniziare percorsi per certificare norme volontarie della famiglia UNI EN ISO, o simili, senza vederne il valore aggiunto e considerando il tutto una perdita di tempo.
Paradossalmente, proprio queste aziende si trovano ad affidarsi completamente a consulenti che si occupano di creare i documenti di sistema, mantengono i contatti con gli Enti, girano per raccogliere dati nei vari reparti e alla fine portano l’azienda ad affrontare l’audit di certificazione.
A questo punto si passa una giornata nella quale viene analizzato qualcosa che riflette l’azienda ma non ne fa parte, in cui il titolare faticosamente capisce quali evidenze l’auditor stia chiedendo e che ha il suo picco di importanza nella scelta di dove andare a pranzare. A fine giornata si procede alle strette di mano, ai saluti e alla gratificazione di vedersi un bollino con scritto “Qualità”, “Ambiente” o vattelapesca da poter mettere sul sito. Almeno fino all’audit di mantenimento.
In questo modo si perde il senso delle norme volontarie, della certificazione delle stesse e, al lato pratico, si sono investiti tempo e denaro solamente per rimanere nella stessa posizione dalla quale si è partiti.
Il che, finché si parla di ISO 9001, corrisponde solamente a soldi buttati, ma quando si parla di sostenibilità questo è un approccio inefficacie e, soprattutto, frustrante per l’imprenditore.
Quello della sostenibilità ESG non è una questione che si risolva con quella certificazione o quelle 4 ore di formazione, così come sono stati abituati male i nostri imprenditori, ma attraverso dei piani complessi, completi e con chiari obiettivi misurabili.
Trattare la sostenibilità come fosse composta da singole commesse, invece che con visione olistica, porta a sprecare soldi e dover ammucchiare una serie di certificati che, separati tra loro, non contano comunque quasi nulla.
Invece che avere 4 audit all’anno, diverse figure interne impegnate qualche ora al mese con dei consulenti per poi non riuscire a portare a termine nessuno dei piani di miglioramento campionati, in quanto la direzione non ha il controllo su quello che succede, è decisamente più conveniente impostare un lavoro unitario che sia in grado di recuperare le sinergie tra i diversi aspetti aziendali e possa strutturare un piano di miglioramento né troppo ambizioso né pigro, ma, soprattutto, che possa essere controllato dalla leadership aziendale.
Suddetta leadership, ovviamente, per poter controllare i processi e riuscire ad essere ancora un fornitore qualificabile quando la sostenibilità sarà un prerequisito base, dovrà aver compreso a fondo il senso e gli obiettivi di tutti questi obblighi e norme volontarie. Si torna, quindi, al discorso iniziale.
Il percorso secondo Margotta Consulting
Su come vada impostato un piano di miglioramento o su quali aspetti siano più prioritari, purtroppo dipende tutto dall’azienda e dal professionista che si trova a far la consulenza. Invito anzi a diffidare di tutte le guide o i percorsi prestrutturati e standardizzati; la sostenibilità deve essere flessibili e personalizzata per ogni realtà.
Mi permetto solo di presentare l’approccio alla consulenza di sostenibilità che abbiamo sviluppato in Margotta Consulting, cioè il Pacchetto ESG per le PMI.
Mentre gruppi e grosse aziende possono permettersi percorsi di sostenibilità aziendale che passino da certificazioni impegnative e che richiedono un’intensa attività di supporto da parte dei consulenti, le Piccole e Medie Imprese, che rappresentano il tessuto produttivo nazionale, non hanno né la conoscenza interna né la possibilità di portare avanti percorsi di certificazione serrati ed impegnativi.
La necessità per le PMI non sarà accumulare certificati, ma essere in grado di reagire velocemente alle varie richieste relative a nuovi aspetti della sostenibilità aziendale, saper raccogliere ed elaborare dati a riguardo e, soprattutto, essere in grado di farlo sfruttando le opportunità e non sopportando un onere.
Per ottenere questo risultato, Margotta Consulting propone innanzitutto l’analisi di quale distanza c’è tra l’organizzazione e gli standard relativi alla sostenibilità nei suoi vari aspetti: Ambientale, Sociale, Economica e di Governance (gap-analysis).
Successivamente, si può iniziare il percorso di educazione delle figure interne, assieme
all’applicazione delle norme volontarie, non tanto per arrivare a certificazione, ma per importare gli strumenti gestionali e di rendicontazione all’interno dell’azienda.
Nel tempo, il focus sarà nel garantire l’indipendenza dell’organizzazione dai consulenti nell’ordinaria gestione delle informazioni relative alla sostenibilità, mantenendo sempre attiva la possibilità di avere un supporto esterno.
Ad esempio, ad una PMI manifatturiera che si trova nella catena del valore non serve a nulla certificare un inventario dei gas effetto serra, ma ha bisogno di una struttura flessibile e rigorosa di raccolta dati in azienda sui GHG, in modo da garantire, a richiesta, dati aggiornati e verificabili senza che scoppi il panico o senza dover chiamare all’ultimo un consulente che venga a salvare la faccia dell’organizzazione.
Gli stessi tipi di ragionamento si applicano per quanto riguarda la sostenibilità sociale e di governance: riuscire ad operare in maniera organizzata e conforme significa essere riusciti a creare un Sistema interno tale da riuscire a mantenere controllati i vari aspetti relativi al personale e ai collaboratori, non solo come gestione amministrativa ma anche come crescita personale, mobilità interna e grado di soddisfazione.
Forse la sfida più grande sta proprio nella governance aziendale, che in Italia è particolarmente calcificata e antiquata a causa della natura più che altro famigliare ed ereditaria del comando delle organizzazioni.
Quante volte, infatti, si incontrano nipoti che vorrebbero modernizzare ma è ancora il nonno che decide?!
Quanti manager per portare un cambiamento devono prima parlare con la dirigente, poi con suo marito, poi con il cugino ecc., prima che si rendano conto che l’unico cambiamento che devono fare è quello dell’azienda per cui lavorare?!
Anche se i figli cresciuti in capannone che ancora lavorano esattamente come i padri sono forse i soggetti più destinati ad essere travolti dai cambiamenti in corso.
Leadership di questo tipo, ad eccezione di alcune realtà particolarmente illuminate, sono destinate ad essere restie al cambiamento, ad opporsi fino all’ultimo a qualsiasi forma di modernizzazione nella gestione del potere, fino a dover piangere per gli aiuti di stato e finanziamenti quando si rendono conto che il mondo le ha superate e non sono più adatte al contesto di mercato.
Sarebbe bello dire di essere esagerati, ma in Italia succede continuamente: prima non si informatizza, poi si cerca di mantenere il sistema di scatti per anzianità, poi ci si oppone all’ottenimento di garanzie e certificazioni.
Son state tutte battaglie perse in partenza, con lo Stato troppo pronto a raccogliere i ritardatari, che nell’ottica di avere un tessuto produttivo migliore, sarebbero semplicemente dovuti fallire.
Ora le cause reazionarie delle PMI sono il divario salariale di genere, la possibilità di gettare rifiuti atmosferici senza conseguenze e una leadership calcificata, opaca e che considera l’azienda un feudo.
Questa volta, però, il contesto è globale, le normative sono continentali e la faccenda molto più seria di quanto non fosse un timbrino della ISO 9001.
A concludere, non importa se la pianificazione per affrontare questa lunghissima onda della sostenibilità sia basata sul framework PMI di Margotta Consulting, sulla diversificazione dei consulenti, sullo spedire le figure aziendali a fare master o se la strategia è di arroccarsi con scorte e viveri aspettando che la tempesta passi (spoiler, non passa); fondamentale risulta capire che il cambiamento è domani, e quindi occorre iniziare a prepararsi seriamente già da oggi.
Luca Pollarini
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