Tutti i giorni si parla di clima, di effetti sul pianeta e dei cambiamenti in atto, e tutti i giorni consulenti e imprese ne discutono per cercare di fare il minimo con il minimo sforzo, tanto per rispondere a leggi scocciatura e guadagnare un badge da mettere sul sito.
Poi si finisce con un metro di fango in azienda o senza acqua per i campi, e ci si attacca alla gonnella di quell’Europa con la quale ci si infuria per gli impegni verso il clima e la protezione dell’ambiente. Serve un altro paradigma di lavoro, magari da adulti e non da ragazzini.
Che la sostenibilità sia uno dei temi di punta del contesto normativo e commerciale che il sistema produttivo Occidentale, e non solo, sta attraversando ormai è chiaro anche per l’imprenditore più recluso e fuori dal mondo.
Come questo messaggio invece viene veicolato dipende in larga parte da quale fonte di informazione è quella più disponibile e percepita come affidabile dagli imprenditori. Raramente sono i Regolamenti dell’Unione Europea o gli studi dell’IPCC, che sarebbero le fonti di informazioni più corrette e di alto profilo; più spesso l’informazione deriva da televisione, social media e altre modalità indirette.
Molto più spesso, però, la figura alla quale l’imprenditore si rivolge è appunto il mondo che ruota attorno alle imprese, dai liberi professionisti, alle società di consulenza, fino ad associazioni di settore e enti di certificazione.
Limitandoci alla sostenibilità ambientale, l’informazione viene fatta nel 90% dei casi semplicemente per vendere, vendere e solo vendere, mentre la controparte avrebbe probabilmente più bisogno di capire perché dovrebbe comprare qualcosa, innanzitutto.
È chiaro che l’evergreen è sempre l’obbligo normativo o le richieste di informazioni e attestati da parte dei clienti finali sottoposti a rendicontazione di sostenibilità obbligatoria, ma ci sarebbero argomentazioni molto più efficaci, se si avesse la voglia di investire un poco di più in educazione e cultura verso le persone che vorremmo ci pagassero per i loro progetti.
Considerando che, oltretutto, affrontare un processo di sostenibilità ambientale serio significa anche andare ad analizzare e gestire un aspetto spesso poco evidente ed appariscente, ma che in molte situazioni rappresenta una Spada di Damocle sopra l’attività. Si parla della valutazione dell’esposizione di un’organizzazione ai rischi derivanti dal cambiamento climatico.
L’esposizione al rischio climatico è una delle tematiche di punta delle leggi e dei regolamenti europei nell’ambito della CSRD, nonché una delle valutazioni dei rischi più complicate e più profondamente strategiche che un’organizzazione possa compiere.
Trattando il tema generale, abbiamo già scritto dei risvolti e delle problematiche che una valutazione del genere porta ad imprese e studi di consulenza (QUI https://www.margottaconsulting.it/post/rischio-climatico-tra-obblighi-vantaggi-attori-pubblici-e-privati-una-sofferenza-necessaria), trattando anche il framework opposto ma simile della valutazione del rischio derivante dalla transizione ecologica https://www.margottaconsulting.it/post/lo-scomodo-favore-esposizione-al-rischio-di-transizione-ecologica.
Un rischio enorme, mitigabile ed ignorato
I rischi che possono derivare dal cambiamento climatico sono essenzialmente di due tipologie:
Danni diretti agli stabilimenti o alle infrastrutture necessarie alla loro operatività, come può avvenire nel caso di precipitazioni estreme, ondate di freddo o di calore, siccità prolungate ecc.
Danni indiretti lungo la catena di fornitura, come può avvenire nel caso eventi estremi colpiscano anelli intermedi della catena del valore o, come capita per le organizzazioni che dipendono dalle risorse naturali, direttamente la fonte di materia prima.
Se l’unico focus aziendale è sul fatturato del mese prossimo, la conoscenza e il controllo di alcuni aspetti ambientali sembra secondario, ma c’è poco di più strategico di avere lo stabilimento integro, l’acqua e l’energia necessari per lavorare e, soprattutto, non dover fare i conti con i fondi di emergenza dello Stato, che sempre più, con il moltiplicarsi di quelle che chiamiamo emergenze ma che sono la nuova normalità, evidentemente non basteranno per sopperire ai danni.
Parlando anche solo dell’Italia, che sicuramente non è né il paese più esposto né il più
impreparato al cambiamento climatico, la situazione è comunque drasticamente peggiorata rispetto a solo venti anni fa e ancora in rapido declino: se fino ai primi anni 2000 la media di quelli che vengono definiti eventi meteorologici estremi era di circa 3 a decennio, con la maggiore instabilità del clima siamo ormai ad un evento all’anno.
Basti pensare al solo 2023, nel quale si registra un 132% di eventi intensi rispetto al 2022 e ben due eventi estremi, cioè la prolungata siccità del Nord-Est (l’ultima di tale intensità risaliva a circa metà del IXX secolo), e le precipitazioni torrenziali in Emilia- Romagna, che hanno riversato mesi di pioggia in poche ore allagando centinaia di ettari di terreni agricoli e conglomerati urbani.
Non si può quindi pensare che vi siano territori con infrastrutture idrogeologiche che, pensate un secolo fa, siano in grado di garantire la tenuta di corsi d’acqua, coste e versanti in un contesto di cambiamento del clima globale.
Allo stesso modo, la struttura amministrativa e politica sono impreparate alla risposta di più emergenze climatiche in brevi periodi e a rifondere annualmente importi di danni che prima si avevano in un decennio.
La risposta aziendale al rischio collettivo
La valutazione dell’esposizione di un’organizzazione ai rischi derivanti dal cambiamento climatico è una di quelle analisi che, giudicate quando sono ancora materia nuova, danno l’impressioni di analisi banali ed inutili, per poi diventare nel tempo pratiche indispensabili e diffuse.
Il valore intrinseco che si può trovare in questo genere di valutazioni, se ben fatte, è infatti molto alto. Di base, sono l’unico modo per avere informazioni che permettano:
Una valutazione generale della sensibilità del business ai cambiamenti nei flussi di risorse primarie in seguito agli spostamenti di areali di crescita di colture.
Di mitigare i rischi derivanti dalla mancata mitigazione dei rischi infrastrutturali da parte dello Stato (es. corrente elettrica che salta durante le ondate di calore estive e durante le ondate di freddo invernali).
La definizione di una analisi territoriali e di sensitività idrogeologica che può dare indicazioni sui rischi legati a frane e alluvioni.
La valutazione dell’impatto dalla scarsità di risorse idriche proiettata negli anni secondo i modelli climatici e i pattern di precipitazione.
La possibilità di implementare soluzioni passive in risposta ai rischi climatici
Valutazioni come quelle descritte, soggette all’ interpretazione strategica da parte della direzione aziendale, sono in grado di dare all’organizzazione gli strumenti necessari per prevenire potenziali problematiche, mitigare i danni e, nel caso, poter governare con più facilità opportunità derivanti da situazioni climatiche estreme.
Come per molti altri aspetti legati al mondo aziendale e come per tutti quelli legati alle tematiche ambientali, la completezza e la qualità dell’informazione gioca un ruolo chiave per quanto riguarda l’utilità del lavoro eseguito.
Ne sono un esempio le innumerevoli Analisi Ambientali Iniziali richieste per la UNI EN ISO 14001:2015, che si limitano a valutare gli aspetti ambientali che hanno un riferimento nella legge applicabile, e che vedono solo l’aspetto dell’impatto che l’azienda ha sul territorio. Utile per passare le verifiche degli Enti di Certificazione e ricordarsi la manutenzione di vasche interrate e porte antincendio, ma molto poco per governare e controllare gli influssi che l’ambiente può avere sull’azienda.
Mosse concrete per l'analisi
La già richiamata norma internazionale UNI EN ISO 14001:2015, per quanto quasi sempre applicata superficialmente in questa sua parte, fornisce un framework iniziale strutturato in modo da favorire la raccolta dei dati più reperibili (fonti energetiche, struttura approvvigionamento e smaltimento risorse idriche, cenni sul Life Cycle Assesment ecc.)
Altri successivi step -che presenterò abbastanza bene da far capire ma non abbastanza da non richiedere consulenza per eseguirli-, sono sostanzialmente divisi tra l’analisi riferita al territorio e alle condizioni di lavoro fisiche dell’azienda, e lo studio della sensibilità economica del business verso il cambiamento climatico.
Analisi di sensitività locale e territoriale: sulla base della tipologia di territorio (geologia, ecologia locale, sistema idrogeologico), dai rilievi orografici e dalla topografia puntuale, si può fornire un valore di rischio sulla base di come eventuali eventi estremi potrebbero impattare prima sul territorio e, di conseguenza, sull’organizzazione. Altra componente territoriale fondamentale è quella infrastrutturale e urbana, che, ovviamente, ha una forte influenza sia sulla fragilità che sulla resistenza al cambiamento climatico.
Analisi della VAS locale: la Valutazione Ambientale Strategica viene formulata a livello pubblico e, in sostanza, definisce quali aree del territorio sono destinate al comparto produttivo, di che tipologia ecc. Asl suo interno sono contenute alcune delle componenti dell’analisi della sensibilità al cambiamento climatico relative alla componente del contesto territoriale
Analisi della Nature-dependancy del business e della Catena del Valore: viene analizzata la catena di fornitura dell’organizzazione per valutare quanta parte della propria materia prima o dei materiali accessori necessari deriva da risorse che potrebbero subire variazioni in seguito alle modificazioni previste del clima. Si parla da aspetti evidenti, come può essere per le aziende agroalimentari, fino ad aspetti meno definiti, come la possibilità dell’interruzione degli spostamenti nei colli di bottiglia logistici.
Analisi dei pattern del cambiamento climatico: l’analisi non si limita chiaramente allo studio della situazione presente, ma vengono proiettate sulle componenti dell’analisi le previsioni dei modelli climatici e geo climatologici, in modo da creare una serie di scenari per favorire le scelte di mitigazione.
L’esecuzione del lavoro, in sé, non richiede l’utilizzo di software o modelli particolarmente complicati; quello che invece è essenziale è una conoscenza approfondita degli aspetti scientifici legati al cambiamento climatico e l’ottica strategica con la quale viene condotto il lavoro.
Un intervento per la business continuity
Benché sia chiaro che le urgenze che le organizzazioni devono affrontare quotidianamente difficilmente, ad oggi, sono strettamente relative al cambiamento climatico, anche se succede sempre più frequentemente e con sempre più gravità, ma sono invece caratterizzate da clienti e fornitori da gestire, orari da fa quadrare, conti da tenere e una produzione da mandare avanti.
La gestione strategica, però, deve tenere conto del contesto nel quale si opera, non solo commerciale ed economico ma anche fisico. Oggi il fattore che si prospetta come più impattante, non solo a livello imprenditoriale ma a quello superiore di civiltà e società, è quello del cambiamento climatico ed ecosistemico.
Conoscerlo e strutturare ricerche per comprenderlo meglio, quando si tratta di mandare avanti un business verso il futuro, è un passaggio fondamentale e di chiara responsabilità, all’interno delle strutture organizzative: è il vertice a doversi occupare di argomenti così strategicamente impattanti. E la mission di Margotta Consulting è proprio quella di accompagnare i vertici aziendali verso la conoscenza di un tema spaventoso, affascinante e dannatamente importante.
Luca Pollarini